Climate Migration: parliamone
Le migrazioni sono fenomeni complessi e sfaccettati. Eppure, a causa della crisi climatica (così suggerisce di chiamarla il Guardian invece che cambiamento climatico) sempre più persone sono costrette ad abbandonare le proprie case, le proprie comunità e il loro paese d’origine. Sebbene ancora non sia parte della “conversazione”, quello che è certo è che nel futuro lo diventerà: il cambiamento climatico è indubbiamente destinato ad entrare a pieno titolo tra i motivi principali alla base di migrazioni e spostamenti. Ecco perché occorre parlarne da subito.
Solo nel 2022, 32,6 milioni di persone sono state sfollate con la forza per motivi ambientali, a causa di inondazioni, tempeste di vento, terremoti o siccità. Per alcuni, la decisione di andarsene viene presa in poche ore, ad esempio in seguito ad un uragano, un’alluvione o un grande incendio inaspettato che devasta intere comunità e abitazioni, com’è avvenuto in Somalia lo scorso anno. La Somalia è considerata una delle nazioni più vulnerabili al cambiamento climatico al mondo: nel 2023 ha attraversato una crisi climatica senza precedenti, affrontando la peggiore siccità degli ultimi 40 anni, con circa un totale di 2,9 milioni di persone. Ma per altri la decisione di andarsene arriva dopo tanti tentativi per andare avanti, mentre graduali cambiamenti rendono anno dopo anno le cose più difficili: come l’aumento delle temperature, l’innalzamento del livello del mare o la siccità. Nel futuro, il problema più grande potrebbe essere la migrazione indotta dagli impatti lenti e graduali del cambiamento climatico, che sempre più si rendono evidenti agli occhi di tutti. Nonostante questo, gli impatti della cosiddetta “climate crisis” sono diseguali e le migrazioni e gli spostamenti più gravi si verificano spesso nei Paesi a basso e medio reddito che storicamente hanno contribuito poco al riscaldamento del pianeta. Nel 2022, il 21% degli sfollamenti dovuti a disastri climatici si è verificato in Paesi meno sviluppati che complessivamente rappresentano meno del 15% della popolazione globale. Sempre in quell’anno, ad esempio, il Bangladesh e la Somalia hanno registrato oltre 1 milione di sfollati rispettivamente a causa di cicloni e siccità. I modelli suggeriscono che in futuro le migrazioni interne più consistenti si verificheranno nell’Africa subsahariana e nella regione Asia-Pacifico, entrambe molto popolose e vulnerabili ai cambiamenti climatici.
I problemi non sono finiti, e sono molteplici: non c’è consenso su chi possa o meno essere annoverato all’interno della categoria di coloro che lasciano il proprio paese per motivi legati alla crisi climatica. Il problema è che è difficile distinguere quando l’ambiente è il fattore principale, e quando è in combinazione con altri fattori. Nella maggior parte dei casi, i fattori ambientali sono strettamente legati a fattori socioeconomici, politici, demografici, culturali e personali che svolgono un ruolo nel determinare o impedire la mobilità, il che rende difficile la raccolta di dati al di là dei disastri a rapida insorgenza che portano all’evacuazione. Inoltre, come per altri tipi di migrazione, la maggior parte delle persone che si spostano a causa degli impatti climatici percorre distanze relativamente brevi, in genere all’interno del proprio Paese, dunque si tratta perlopiù di casi di internal displacement. La maggior parte di coloro che fuggono dalle proprie case a causa degli stravolgimenti del clima lo fa all’interno del loro stesso paese o in paesi confinanti. La cosiddetta “crisi climatica” non ha, per ora, effetti rilevanti sui flussi migratori globali. Questo, tuttavia, fa sì che la qualità e la disponibilità dei dati su questi tipi di spostamento vari da paese a paese e da evento a evento e che quindi non ci siano dati comparabili e longitudinali. Questa mancanza di ricerca multidisciplinare e di integrazione rende ancora più difficile la previsione di rischi, tendenze o strategie future.
Secondo il diritto internazionale non esistono rifugiati climatici, il che significa che una persona che ha attraversato un confine a causa della crisi climatica non ha diritto ad alcuna protezione e non può chiedere asilo a causa dei cambiamenti climatici. La Convenzione sui rifugiati, istituita nel 1951 a Ginevra, offre protezione solo a coloro che fuggono a causa di conflitti, persecuzioni politiche, sociali, razziali o religiose. Questo accadeva 72 anni fa, e da allora molte cose sono cambiate.
In conclusione, il fatto che il clima oggigiorno non sia la principale, né l’unica causa, a dettare gli spostamenti delle persone, non significa che possa essere ignorata. I casi della Somalia, del Sud Sudan e del Sahel sono emblematici in questo senso: conflitti nati anche su basi climatiche provocano grandi spostamenti di persone. Dunque, cosa occorre fare? Come scrive UNHCR, “Molte cose: migliorare la resilienza delle comunità vulnerabili; attività sul campo per la prevenzione, la riduzione dell’impatto e la garanzia di risposte sostenibili per gli sfollati; supporto tecnico e legale per sviluppare nuove leggi nazionali.”